Regolamento generale del concorso
Giuseppe Patanè
Il Presidente della Giuria, M° L. Castriota Skanderbeg, che ha ricoperto per un periodo il ruolo di assistente del M° Patané, ha ritenuto opportuno descrivere il M° Giuseppe Patané attraverso il ricordo del M° Rodolfo Celletti.
Biografia
Un Ricordo di Rodolfo Celletti (Ottobre 1989)
Per la verità, i primi anni di carriera non furono brillanti, riservarono a Patané molti teatri periferici, in Italia e all’estero. All’Opera di Roma giunse nel 1964 con la Madama Butterfly; alla Scala nel 1970 con il Rigoletto e il Don Carlo. Ma nel frattempo s’era affermato anche all’estero. Nel 1961 aveva iniziato un rapporto con la Deutsche Oper in Berlino destinato a protrarsi per molti anni. Nel 1971 diresse per la prima volta all’Opera di Amburgo, ma già da qualche tempo era comparso alla Staatsoper di Vienna, al Covent Garden di Londra, al Metropolitan di New York.
Ormai lo si considerava come una delle bacchette più versate nel repertorio operistico italiano ed era ospite dei maggiori teatri del mondo. Anche di recente la sua attività internazionale seguiva un ritmo serratissimo. Questo, per quanto riguarda i dati biografici essenziali, è tutto.
La statura del musicista era per molti aspetti eccezionale. Patané vantava anzitutto una memoria mostruosa. Per molte partiture del repertorio italiano era una sorta d’archivio vivente. Si narra che, all’inizio della carriera, trovandosi in uno sperduto teatro straniero, ricostruisse a memoria le parti strumentali della Bohème, non essendo giunte a destinazione quelle richieste dall’impresariucolo che aveva organizzato le ricite. La memoria, tuttavia, non era che un aspetto del singolare congegno musicale che Patané incarnava. Altrettanto eccezionale erano l’istinto e la sensibilità. Coglieva il rapporto fra situazione scneica, contesto strumentale e vocalità con un’immediatezza che sorvolava qualsiasi problemtaica. Aveva anche un gesto ampio, incisivo, eloquente che, morbido o imperioso che fosse, andava sempre a segno per chiarezza e forza di suggestione. Conosceva il respiro dei fraseggi volcali, guidava le orchestre lungo la rotta d’una dinamica che poteva abbracciare i pianissimi più tenui e i fortissimi più intensi senza distorsioni di suono e con un senso del ritmo e una capacità e una tempestività di interventi, negli imprevisti del palcoscenico o della buca, attuati con la massima semplicità.
Pochi mesi prima che Patané morisse, una zanzarina che ronza su un quotidiano milanese mi diede sulla voce. “Ma come!Loda Patané che alla critica piace poco e stronca un Böhm”. Capirai che termine di paragone! Chi non apprezzava Patané? La critica che si fa provinciale per non sembrare provinciale; e che inoltre, diffidando del prorpio orecchio o delle proprio nozioni, non osa censurare le cosiddette celebrità, anche quando la loro fama è usurpata.
Ma Patané era un grande direttore. L’ha scritto di recente anche Maurizio Papini. Non ho mai conosciuto Giuseppe Patané. L’unico contatto è stata una telefonata di alcuni anni fa. Troppo poco per poter parlare dell’uomo in prima persona. Ma è notorio che Patané non si curava minimamente di sfoggiare l’’allure”, il tono, il sussiego dell grande direttore. Anzi, il contrario. E per questo si tendeva a sottovalutarlo. Gli mancava anche il cosiddetto perfezionismo. Piutosto scettico, a volte abbonava a certe orchestre una parte della prova. Tanto, diceva, più di questo non renderanno mai. Spesso aveva ragione, qualche volta torto.
Il suo stesso rendimento poteva essere altamente per mancanza di concetrazione nell’immenenza d’una recita. Anche perché amava vivere a modo suo. Gli accadeva poi di accettare la direzione di edizioni di opere il cui esito appariva pregiudicato in partenza e d’essere quindi coinvolto in recite disastrate. In tempi più recenti, però, era diventato più cauto. Ne è una parova la rinuncia alla Luisa Miller allestita quest’anno dalla Scala.
Come chi sia, quando voleva Giuseppe Patané aveva veramente la statura del grande direttore d’opera. Negarlo perché non s’atteggiava a santone del podio sarebbe iniquo, oltre che sciocco.
Giuseppe Patanè è morto a cinquantasette anni.Ed è morto sul podio, mentre dirigeva. Sul podio, in un certo senso, era anche nato. Il padre, Franco Patané, era stato un direttore d’orchestra di qualche merito. Pochi sanno, di Giuseppe Patané, che in teatro esordì come cantante. Napoletano, era fanciullo cantore del coro del San Carlo quando, nel 1946, quattordicenne, sostenne una parte solistica, quella di Geppino, in un’opera nuova di Jacopo Napoli, Miseria e nobilità. Era già allievo del Conservatorio di San Pietro a Majella. Studiò direzione d’orchestra, impugnò per la prima volta la bacchetta, in uno spettacolo d’opera, nel 1951, ancora a Napoli. L’opera era Traviata, Giuseppe Patané aveva soltanto diciannove anni. Il teatro dell’esordio non era però il San Carlol Per giungere al maggior teatro della sua città, Giuseppe Patané dovette attendere l’estate del 1962 e la stagione organizzata dal San Carlo all’Arena Flegrea. L’opera fu la Madama Butterfly. Nel maggio del 1963, poi, Patané diresse al San carlo il Rigoletto. Da allora, fino a tempi recentissimi, è stato uno dei direttori più assidui, nel teatro napoletano.